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Paura dentro

Testimonianza di Monica Zuccato

PAURA DENTRO
Ora che tutto è finito, a volte, ho difficoltà a confrontarmi con la realtà.
A volte mi guardo allo specchio e mi rendo conto che ancora non so chi sia la donna che vi si riflette.
Poi guardo mio figlio e mi dico che qualcosa di buono ho fatto, che mi aspetta un compito importante: crescerlo, educarlo e indirizzarlo alla vita.
Non posso perdermi ancora in stupidi giochi mentali, vagabondaggi dentro me stessa e la mia anima, distorsioni della mia immagine.
Chi sono io veramente? Mi sono bastati anni di sofferenze per approdare alla fine di questa ricerca, oppure è stato tutto inutile, assolutamente vano, il vuoto? Mi sveglio ancora, la notte, a volte. Fatico a riemergere da un incubo che ha popolato notti e giorni della mia esistenza: mi vedo ancora là, che mangio e mangio, la mia pancia che si riempie fino a scoppiare, la mia testa che non riesce a tener dietro al corpo, a quelle mani che si impadroniscono di cibi qualsiasi e li portano alla bocca, e li esauriscono poi, espellendoli in un’ansia che è quasi panico: paura dentro.
Paura di tenere dentro tutto quel cibo, quella vita che non è vita ma che vuole esplodere fuori perché è tempo di crescere, di vivere, di prendersi a piene mani attimi che volano via.
E fuori essere come se niente fosse: una maschera. Recitare una parte, metterci l’impossibile e capire che è una causa persa, che non ce la farai mai, che non hai più il controllo su tutta questa assurda, grottesca e quasi surreale situazione, iniziata per gioco.
È assurdo, grottesco e surreale vedersi e percepirsi sdoppiata in due, una parte di te che vede l’altra annaspare, lottare, tormentarsi. E non riuscire a capire qual è la parte giusta, quella che vorresti tenere, costruire, coltivare, quella che vorresti che gli altri amassero ed apprezzassero.
Come faccio oggi a spiegare che cosa significa vivere e insieme non vivere?
Ho sperimentato il malessere di vivere da sempre. 
Non mi sono mai sentita come gli altri. Ero e mi vedevo diversa: non andavo mai bene, non ero mai apposto, non avevo mai il coraggio, non ero mai “abbastanza”.
Tutta la mia infanzia è una storia di paura dentro: paura di tutto, degli altri e di me stessa, di non riuscire, del buio, del chiuso, di non capire, di non poter parlare …
Questa paura mi attanagliava lo stomaco, mi stava dentro come una serpe avvoltolata su se stessa le cui spire mi stringevano fino a togliermi il fiato. Non riuscivo ad urlarla, spingerla fuori, stritolarla, romperla, farla in mille pezzetti e buttarla per aria a disperdersi per sempre!
La formidabile forma di controllo che sperimentai con l’anoressia certo mi aiutò ad acquisire la sicurezza in me stessa che non avevo mai avuto in condizioni normali. Era una sensazione d’incredibile potenza dominare la vita biologica del mio corpo, farlo restringere a poco a poco e modellarlo a mio piacimento: via la pancia, via il seno, via i fianchi, via tutto ciò che poteva qualificarmi un essere, una donna e quindi darmi la possibilità di crescere e maturare.
Mi scrutavo allo specchio e spiavo le reazioni; la mia parte razionale si vedeva magrissima, uno scheletro ricoperto da poca carne e sentiva paura dentro per ciò che avrebbe potuto succedere.
Ma l’altra parte si sentiva invincibile, inavvicinabile, distorceva la realtà e si convinceva che quell’anomala magrezza era bella, attraente e mi conduceva lungo strade dalle quali avrei potuto poi retrocedere a fatica e non senza aver pagato un prezzo davvero esorbitante.
La mia famiglia andò per aria: nessuno capiva ciò che mi stava succedendo e, se in un primo tempo tutti si preoccupavano perché non mangiavo più, perché dimagrivo, alla lunga poi non riuscirono più a sopportare una situazione che interessava tutti, che non concedeva scampo a nessuno.
Era bello, all’inizio, giocare con tutti questi personaggi come burattini; provavo l’incredibile sensazione di essere io a manovrare le sorti di tutti quanti, di poter decidere per tutti. Fingevo sempre di star male e tutto andava, come per incanto, secondo i miei desideri, purché guarissi, purché stessi meglio.
Il gioco poi divenne più grande di me, assunse proporzioni inimmaginabili per tutti noi e mi ritrovai prigioniera di un meccanismo che avevo inventato io: la sensazione di potenza scomparve dalla mia vita e mi sentii in balia degli eventi. Sapevo solo che il cibo aveva su di me un effetto anestetizzante, che era una panacea per tutti i miei mali. E mangiavo senza darmi tregua mentre il mio corpo lentamente si avviava verso una decadenza che non era soltanto motivata dal tempo che trascorreva inesorabile.
Avevo bisogno del cibo per far tacere la mia paura dentro, quella paura che non se ne era mai andata, che pensavo ormai non se ne sarebbe andata più. I miei denti, i miei capelli, le mie unghie, la mia pelle; le tracce del tempo e della malattia mi segnavano indelebili rovinando l’immagine di perfezione fisica cui avevo voluto aspirare all’inizio di tutta la mia storia.
E la solitudine mi ammazzava il cuore. A volte ci si può sentire tremendamente soli in mezzo ad una moltitudine di gente sapendo di portarsi un segreto dentro e non poterlo rivelare, di non poter dire a nessuno che stai male, che non ce la fai più, che vorresti una tregua, che vorresti magari morire perché tutto finisca, perché non ci sia un nuovo giorno con nuovi tormenti. La solitudine non la sopportavo; mi metteva sempre davanti gli altri con le loro vite “normali”, con le loro gioie ed i loro dolori veri ed autentici.
Mentre tu vivi una vita di carta, di nulla, e li guardi, li scruti, li invidi perché vorresti essere come loro, vorresti poterti sedere davanti ad un piatto e nutrirti e non lottare sempre con il cibo.
Il cibo… chi penserebbe mai che esso possa essere insieme fonte di vita e di morte. 
Perché la morte io l’ho rischiata tante e tante volte.
Mi sentivo come invisibile a volte, senza consistenza, aerea. Un piatto pieno, un piatto vuoto, un piatto pieno, un piatto vuoto, spesso neppure un piatto.
E mangiare, mangiare dovunque, mangiare sempre, in qualsiasi momento. Prima di un colloquio importante, prima di un incontro cui tieni, prima di un esame, prima di … prima di tutto viene sempre il cibo e tu ti perdi in lui.
È possibile che tutto questo sia fondamentalmente egoismo? 
Non ho mai potuto rispondere a questa domanda che penso di essermi posta almeno un milione di volte.
So soltanto che mi sono tenuta accuratamente alla larga dai sentimenti per anni, per paura di soffrire, di dire, di dover raccontare, di buttar fuori la mia paura dentro.
E per anni non ho avuto qualcuno da amare ma questo tuttavia non deve stupire. Come si può amare un’altra persona se per primi non sappiamo amare noi stessi? E quale strana forma di amore ci prodighiamo, se pretendiamo di volerci bene al punto di maltrattarci tanto?
Prima di amare qualcuno ho dovuto crescere ed imparare a convivere con la mia paura, ho dovuto imparare a fidarmi di me stessa, prima, e di un uomo poi.
Ho dovuto imparare a mettere tra le mani del mio compagno di vita tutti i miei anni di paura dentro: mi sono detta che forse sarebbe scappato ed avrei sofferto. Allora avrei avuto la certezza che non mi meritava.
Ma non è andata così ed ho imparato ancora che si temono le cose che non si conoscono.
Non si deve aver paura di vivere; anche se a nessuno è dato conoscere il proprio futuro abbiamo il dovere di vivere il presente perché la vita è un dono prezioso. La mia battaglia è durata un’intera vita, per certi versi dura ancora ma non mi sento di avere perso. 
Se oggi guardo mio figlio so che non ho lottato inutilmente e ciò basta a lenire il dolore ed il rimpianto per anni perduti, buttati al vento, vissuti male o forse non vissuti.
E da lontano – quasi da un’altra dimensione - ora guardo, scruto, il fagotto informe della mia paura dentro. Ma non può più farmi alcun male.
Monica Zuccato
Treviso-Pordenone 15 marzo 2018