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Accettare di curarsi

Accettare di curarsi è difficile?

Gian Luigi Luxardi, psicologo - Tania Rossi, psicologa
 
I disturbi del comportamento alimentare si definiscono disturbi egosintonici. Ciò significa che la persona che ne soffre li considera una parte di sé. In altre parole, una ragazza che soffre di anoressia considera la sua malattia, con tutti i disagi che comporta, come un aspetto della propria identità. Per quanto sia decisa ad affrontare la cura, la prospettiva di cambiare la spaventa come se al di là del suo disturbo ci fosse il vuoto.
Inizialmente questa difficoltà è dovuta all’importanza rivestita dal dimagrimento. La ragazza si è probabilmente impegnata molto in quel senso, ha pensato che le sue insicurezze e le sue difficoltà con gli altri sarebbero state superate se fosse stata più magra e quasi certamente ne ha avuto una conferma. Nella nostra società la magrezza riveste un valore importante e non è strano trovare qualcuno che incoraggia una ragazza normopeso che si mette a dieta. Inoltre, la restrizione alimentare è spesso un sinonimo di forza di volontà e di controllo su sé stessi. In questi termini la scelta di dimagrire si può definire inizialmente non tanto come un problema, ma come un tentativo di soluzione dei propri problemi. Un tentativo in cui la ragazza si sente finalmente efficace ed apprezzata dagli altri.
Oltre a questo rinforzo che proviene dall’ambiente circostante, la dieta restrittiva procura ben presto altre conferme del successo raggiunto e della bontà della via intrapresa. Dopo lo stress iniziale dovuto alla restrizione alimentare compaiono le conseguenze positive del digiuno, rappresentate da una sintomatologia conseguente ad alterazioni del metabolismo cerebrale ancora poco studiate. Si avverte una sensazione di benessere diffuso, accompagnata da una straordinaria lucidità e talvolta da euforia. Accanto a ciò si insinua una sorta di iperattività che fa pensare alla persona di essere finalmente in grado di fare tutto quello che le interessa. Questo stato si è rivelato probabilmente molto utile alla specie umana, in passato, nell’attivare le energie necessarie alla ricerca del cibo nei periodi di carestia alimentare. Per ciò che riguarda però la ragazza anoressica, questa condizione di attivazione contribuisce a generare la convinzione di aver individuato la soluzione perfetta e a concentrare tutte le sue energie per mantenerla.
Si può facilmente immaginare come questo sia il momento in cui insorgono le prime incomprensioni con i familiari e l’ambiente circostante. Qualcuno si accorge che il dimagrimento si sta facendo troppo accentuato e lo fa notare. Di fronte alle considerazioni che le vengono poste in questo senso la ragazza si sentirà non capita, attaccata in ciò che finalmente le sta dando dei risultati, costretta a precipitare dal successo all’ammissione di un fallimento e difenderà strenuamente le scelte compiute a prezzo di una sempre più elevata conflittualità familiare. In questo momento l’importanza dei rinforzi sociali inizia a diminuire, mentre assumono una posizione centrale le conferme che arrivano dall’interno, quali il fatto di riuscire a seguire alla perfezione la dieta, il controllo su sé stessi, la vittoria sui propri istinti e infine l’indipendenza dal giudizio degli altri.
La prima fase dell’anoressia, denominata “luna di miele”, in gran parte condivisa dalla bulimia, termina qui, spesso nel giro di pochi mesi. Tuttavia questo periodo è sufficiente per creare un profondo legame con le condotte descritte, fino a confondere il mantenimento della dieta restrittiva con il proprio benessere e la propria integrità personale.
Accettare la cura in questo momento equivale ad abdicare a sé stessi, tuttavia è molto importante che la famiglia e gli esperti intervengano in queste fasi precoci quando il disturbo non è ancora stabilizzato e minori sono le complicanze organiche. E’ importante che chi viene in aiuto alla ragazza riconosca la positività del suo sforzo di migliorarsi mostrando che è la soluzione cercata, e non lei stessa, ad essere fallace. E fondamentale far comprendere alla persona che la si accetta in quanto tale, in una situazione di rapporto caldo ed accogliente, ma anche mettere in discussione i suoi assunti, per esempio quello dell’importanza della magrezza. Quando il rapporto inizia in queste fasi precoci è necessario aiutare la giovane a riconoscere l’avvicendamento che si è verificato nel suo sistema di valori. E’ probabile che precedentemente al disturbo avesse una serie di interessi cui teneva molto: la scuola, le amicizie, un’attività particolare, un rapporto affettivo. Ora sembra che tutto ciò sia decisamente secondario alla lotta che conduce contro i suoi istinti naturali per perdere peso. E’ proprio questo che voleva quando tutto è iniziato? O forse aveva pensato di perdere un po’ di peso per riuscire a inserirsi meglio con le altre persone?
Queste considerazioni fanno parte degli interventi sulla motivazione, che precedono il trattamento vero e proprio ed hanno lo scopo di favorire la disponibilità ad esplorare soluzioni diverse da quelle finora tentate.
Nella fase successiva, definita avanzata, lo stato di benessere lascia il posto all’ossessione per il peso ed il cibo (vedi fig.2). Tutto, nella vita della ragazza anoressica, diventa cibo; l’attività mentale si riduce all’ambito dell’alimentazione. Questo è il momento in cui alcune ragazze “scoprono” improvvisamente che il loro più grande desiderio è di fare la cuoca, oppure lasciano la scuola frequentata per un istituto alberghiero. Compaiono comportamenti compulsivi in ambiti che precedentemente si collocavano ai margini della quotidianità, quali fare la spesa, cucinare per i familiari (spesso con abbondanza di grassi), raccogliere e collezionare ricette di cucina. E’ evidente che questi comportamenti assumono una funzione vicaria rispetto al grande desiderio di cibo che si tenta di comprimere.
L’altro versante è rappresentato dalla paura di lasciarsi andare e perdere il controllo. La ragazza anoressica teme di non riuscire a controllare il desiderio del cibo e questa paura è resa ancora più terrificante dall’irrazionalità che caratterizza il pensiero: «Se mangerò anche solo una piccola cosa il mio corpo ingrasserà a dismisura».

Se le difficoltà ad accettare il trattamento erano dovute, nella prima fase, alla convinzione manifestata sulla correttezza del proprio comportamento, in questo momento hanno a che fare con le difficoltà del pensiero. Il pensiero ossessivo conduce a comportamenti obbligati, al di là dei quali c’è spazio solo per la paura di ciò che potrebbe verificarsi, senza alcuna possibilità di individuare vie alternative. Il pensiero diventa concreto, legato alle piccole contingenze quotidiane, incapace di costruire ipotesi o progetti per il futuro. Nella relazione terapeutica, dopo aver stabilito una relazione di fiducia, questo è il momento in cui è necessario che la persona sofferente si affidi a chi la cura, delegandogli la gestione della riabilitazione nutrizionale. Ciò è possibile in quanto si fa faticosamente strada, pur tra le difficoltà evidenti, la consapevolezza della precarietà della propria condizione e si manifesta autonomamente una richiesta di aiuto.
 
 
Fig.2 – Rapporto tra calo ponderale e ossessione per il cibo (da Dalle Grave, 1996 – modificato)
 
Nella fase finale del disturbo, caratterizzata dalla cronicizzazione, nella maggior parte dei casi si assiste ad una presa di distanza dalla malattia. Gli sforzi e i sacrifici sopportati per tanto tempo appaiono senza scopo e ci si confronta con le limitazioni imposte alla propria vita. Ciò non significa che sia scomparsa la paura del peso o che ci sia una maggiore tranquillità nell’abbandonare l’atteggiamento di controllo. Molto spesso accade che la cronicizzazione dei disturbi a carico del tratto gastrointestinale rendano ulteriormente problematico il ritorno ad una alimentazione regolare. L’elemento nuovo è rappresentato dalla consapevolezza della necessità di un aiuto, che si traduce in una richiesta pressante di terapia. A differenza di ciò che accadeva nelle prime fasi, a questo punto il disturbo non viene più percepito come una propria scelta o addirittura come una parte di sé, ma come una malattia.
L’insidia dei disturbi del comportamento alimentare consiste anche nel fatto che la disponibilità a curarsi è minima nel momento in cui il problema è più facilmente affrontabile e, viceversa, raggiunge la determinazione massima quando il disturbo è più stabilizzato. Affrontare il disturbo alimentare nella fase cronica è oggettivamente difficile per la presenza di complicanze organiche e per le conseguenze del ritiro sociale operato precedentemente. Tuttavia l’esperienza clinica mostra come talvolta i risultati siano sorprendenti, grazie alla determinazione a risolvere il problema. E’ fondamentale in questa situazione un forte sostegno alla persona. Un’esperienza interessante è quella dei gruppi di auto-aiuto, in cui si realizza un sostegno reciproco e si crea la possibilità, per le persone che vivono una situazione di deprivazione sociale, di ricostruire un tessuto di relazioni significative e solidali.
 

È POSSIBILE USCIRNE: COME?
Io sono una ragazza anoressica che per vent’anni ha vissuto questo inferno, alternando alle fasi di restrizione alimentare quelle di abbuffate, con le relative conseguenze.
È come essere nelle sabbie mobili: più ci si muove, più si affonda. Guardandosi intorno, però, si può scorgere un appiglio di quelli resistenti: aggrapparsi con tutta la forza è la soluzione per uscirne.
Innanzitutto, bisogna VOLERE abbandonare questa situazione di autodistruzione. Il percorso è lungo, difficile, doloroso. Ma alla fine del tunnel c’è ancora la luce !
Da sola la persona non può riuscire: l’impresa è ardua e abbisogna della collaborazione della famiglia e di chi affettivamente è accanto a lei. Vivere accanto ad un’anoressica o a una bulimica non è facile: spesso noi siamo aggressive, ritrose, preferiamo la solitudine …
Ma aiutandoci a togliere questa maschera ci si accorge che siamo vulnerabili, fragili, insicure e soprattutto abbiamo tanto bisogno d’amore!
È molto importante trovare una persona nella quale avere fiducia: non qualcuno con cui vivere in simbiosi ma, al contrario, che ci stimoli, senza forzarci, ad essere noi stesse, responsabili delle nostre azioni, e delle nostre scelte, a camminare da sole sapendo però di poter contare su una presenza costante, sincera, sicura!
Il fatto di scoprirsi libere da questa angoscia non è regalato: lo si guadagna giorno per giorno con fatica, poiché è difficile rinunciare ad una scelta di vita come la nostra, anche se sbagliata!
Però, svegliarsi al mattino e sorridere guardando la pallida luce dell’alba, il sorgere del sole, respirare la brezza che accarezza la pelle, incantarsi osservando piccole cose, come un fiore o una farfalla, sono sensazioni che significano VITA, una vita che, comunque sia, va vissuta, cercando in ogni suo aspetto la positività e donandola a chiunque ne sia sprovvisto…e poi sentire vicino quella insostituibile presenza amica.