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Dedicato a genitori e amici

Genitori e amici delle persone con disturbo alimentare

Marina Moro, psicologa
 
I GENITORI
Nei programmi di trattamento dei disturbi dell’alimentazione è utile poter contare sulla partecipazione e la collaborazione dei genitori. E’ risaputo che la maggior parte delle ragazze con questi disturbi sono molto giovani e la famiglia rappresenta il loro contesto naturale; inoltre, anche in età superiori, i problemi psicologici che presentano entrano in modo diretto a far parte della relazione con le persone a loro più vicine e spesso, proprio i familiari, chiedono di essere supportati per l’alto carico emotivo che questo comporta.
Coinvolgere la famiglia nel programma di trattamento non significa ritenere che in essa risieda la causa del disturbo.
L’opinione, in parte ancora diffusa, che esista una famiglia “anoressogena”, è derivata da numerose osservazioni e indagini compiute in passato, che però oggi hanno perso la loro attendibilità. Le caratteristiche familiari oggetto di quegli studi spaziavano dalle variabili sociali e demografiche a quelle psicologiche/relazionali.
Per quanto riguarda le prime, oggi sappiamo che i disturbi alimentari, pur essendo prevalenti nel sesso femminile, si distribuiscono uniformemente in tutte le classi sociali e livelli di scolarità. In passato si pensava che essi si sviluppassero in famiglie di livello sociale e culturale medio-alto; tale distorsione è derivata probabilmente da errori nella scelta del campione da studiare, che spesso rappresentava la popolazione che richiedeva le cure in strutture, che per i loro costi, non erano accessibili a tutti.
Entrando nel merito delle variabili considerate a maggior impatto psicologico, sono state condotte delle ricerche sui fattori familiari considerati scatenanti la malattia, in particolare è stato valutato l’effetto di eventi negativi come lutti, separazione o divorzio dei genitori, abuso sessuale ecc.. Poiché tali eventi si ritrovano con la stessa frequenza in diversi disturbi psicologici, non si è potuto dimostrare che essi siano direttamente collegati ad un disturbo specifico come quello alimentare.
Negli anni gli studiosi hanno proposto anche descrizioni dei tratti di personalità dei genitori, del tipo di relazione esistente fra genitori e figli e delle caratteristiche familiari riscontrabili dove esiste un disturbo dell’alimentazione. Queste descrizioni sono derivate dall’osservazione di casi clinici, cioè dallo studio di contesti dove il disturbo si è già manifestato; ciò impedisce di distinguere quanto il problema familiare rilevato sia la causa o la conseguenza della malattia. Oggi, inoltre, è stata superata la spiegazione dell’esistenza di un problema psicologico come collegato direttamente ed esclusivamente ad una causa e sono stati invece individuati una serie di fattori che si influenzano reciprocamente.
I fattori familiari che un tempo venivano considerati direttamente legati all’origine del disturbo alimentare, molto più probabilmente rappresentano una condizione che spesso accompagna e mantiene il sintomo. Per esempio l’ipercontrollo dei genitori sui figli, più che la causa della malattia, risulta una modalità di relazione che non favorisce l’uscita dalla malattia in quanto rinforza il problema dello scarso controllo della propria vita, che si ritrova nei pazienti con disturbo alimentare.
In quest’ottica i dati che derivano dalle osservazioni cliniche del passato diventano utili perché individuano alcune aree critiche di mantenimento del disturbo. Sulla base dei contributi dei diversi teorici le costanti individuate possono essere così riassunte:
¨     il disturbo diventa il centro attorno al quale ruota tutta la vita della famiglia,
¨     il nucleo familiare tende a chiudersi e a isolarsi,
¨     aumenta l’iperprotettività e l’ipercoinvolgimento,
¨     i confini fra le generazioni si offuscano.
Queste problematiche non sono specifiche del disturbo dell’alimentazione, in quanto sono ritrovabili anche in altri contesti dove è presente una malattia grave, ma interagiscono direttamente con la vulnerabilità psicologica delle persone con questi disturbi.
Questi ragazzi manifestano difficoltà nel controllo della loro vita, così la centralità che assume il disturbo all’interno della famiglia produce il risultato di perpetuare il controllo sul cibo come unico spazio di comunicazione e azione.
L’isolamento e la chiusura della famiglia non permette, né ai genitori né al figlio, di trovare degli spazi esterni di gratificazione e di confronto. L’isolamento, inoltre, aumenta i livelli di ansia, confusione e ipercoinivolgimento, che restringono gli spazi di razionalità. Gli studi sull’emotività espressa, che inizialmente si riferivano alle famiglie di pazienti schizofrenici, hanno valutato l’impatto del coinvolgimento emotivo “negativo” nella malattia di un familiare. E’ risultato che nelle famiglie che si caratterizzano per una alto livello di critica di comportamenti, ostilità e ipercoinvolgimento, aumenta il rischio di ricaduta del familiare. Quest’ipotesi non è stata confermata pienamente da tutte le ricerche sul campo, però è stato dimostrato che un miglioramento del clima affettivo consente maggiormente l’attivazione delle risorse e l’identificazione dei punti di forza della famiglia.
E’ comprensibile che il normale ciclo di vita della famiglia si arresti quando un figlio manifesta un disagio psicologico, ma è altrettanto importante non perdere di vista il compito evolutivo sia dei figli che dei genitori. La possibilità per un figlio di crescere in autonomia prevede la costruzione di uno spazio personale anche fuori dalla famiglia e richiede un cambiamento anche nei genitori, che a loro volta, devono poter ricostruire, o costruire, un loro spazio comune non centrato esclusivamente sul figlio. Questo significa che offrire aiuto al ragazzo ora richiede modalità diverse da quelle dell’infanzia: un modo possibile è quello di sostenerlo gradualmente nell’assumersi il problema, svolgendo più una funzione di “facilitatori” verso la cura che non di “controllori” del disturbo. La responsabilità del genitore consiste nel prendersi cura del figlio, non del disturbo, perché si curi nel modo migliore e possa riprendere il suo percorso di crescita.
Alla famiglia il ciclo evolutivo richiede molto, da un lato la stabilità e la chiarezza dei confini, dall’altro la flessibilità nel cogliere e affrontare i cambiamenti che avvengono al suo interno. I figli adolescenti, soprattutto se si trovano in difficoltà, hanno l’inconsapevole capacità di destabilizzare gli equilibri familiari precedenti, al punto che i genitori possono perdere sicurezza anche nell’affrontare momenti di vita in comune, che fino a quel momento venivano gestiti con assoluta naturalità.
I tentativi messi in atto dai genitori sono diversi, uno che si riscontra frequentemente consiste in un avvicinamento al figlio che si caratterizza però per aspetti più amicali che genitoriali. Questa situazione può portare ad un offuscamento dei confini generazionali; l’instabilità dei confini partecipa al mantenimento del disturbo perché produce un indebolimento della coppia nel far fronte al problema. A volte mentre un genitore si fa carico totalmente della problematica del figlio, l’altro rischia di rimanerne escluso, privato del ruolo che normalmente ricopre e quindi “inutilizzabile” sia per il figlio che per il coniuge.
Un esempio di questa situazione si ritrova nelle famiglie dove la madre, che più spesso svolge una funzione di accudimento, accoglienza e condivisione, aumenta il suo coinvolgimento con il figlio estendendo la sua disponibilità e tolleranza in tutti gli ambiti che lo riguardano. Il padre, a sua volta in difficoltà per la preoccupazione, spesso accetta l’espulsione dal rapporto madre-figlio, perde la possibilità di essere di sostegno alla madre e di rappresentare per il figlio una figura di riferimento stabile e “regolatrice”. Il disturbo alimentare può così dominare la scena e dettare le regole in casa perché collude con uno dei due genitori ed esclude l’altro. In certi casi ciò produce fra i genitori dei forti conflitti, sulle questioni che riguardano il figlio, che polarizzano le energie da utilizzare invece per aiutarlo a far fronte al problema. All’opposto la confusione generazionale e la centralità della problematica del figlio possono portare ad evitare i conflitti preesistenti nella coppia e questo, rappresentando una possibile stabilità familiare, può rinforzare la permanenza nella condizione di malattia.
L’esperienza diretta ci dice che le caratteristiche di relazione familiari che sono state osservate non possono essere estese in assoluto a tutte le famiglie. Tuttavia anche quando le condizioni relazionali alle quali abbiamo accennato brevemente, sono presenti, non dobbiamo dimenticare che in ogni famiglia esse rappresentano l’equilibrio che è stato possibile ottenere fino a quel momento.
La necessità di non perpetuare il disturbo richiede dei cambiamenti nelle modalità di comportamento e di relazione familiare, ma per produrli è utile comprendere prima la funzione che hanno avuto gli equilibri precedenti.
Per questo non sarebbe possibile nello spazio di queste pagine dare consigli o risposte che vadano bene per tutte le situazioni.
I genitori di ragazzi con disturbo alimentare frequentemente chiedono indicazioni concrete su come gestire situazioni contingenti come il momento del pranzo o i momenti di espressione del sintomo (digiuni, abbuffate, vomito, verifica ossessiva del peso ecc.). Altre volte chiedono aiuto per decifrare gli aspetti comunicativi che assume la condotta alimentare, nella sua capacità di farli sentire in scacco o in ostaggio.
Le risposte a tutti questi quesiti esistono, ma vanno cercate insieme, in uno spazio dedicato ai genitori, dove sia possibile collegare la situazione contingente alle chiavi di lettura già proposte e che riguardano il figlio come persona.
E’ la comprensione dell’interazione fra fattori familiari e fattori psicologici individuali, insieme ad una corretta informazione sul disturbo, che permette di individuare le zone di mantenimento del problema sulle quali agire.
 
L’AMICIZIA IN ADOLESCENZA
Insieme al cambiamento nella relazione con i genitori, in adolescenza l’ambiente esterno alla famiglia, in particolare il gruppo dei pari, diventa per il ragazzo un riferimento sempre più significativo per poter affrontare il suo percorso di crescita.
Non si tratta propriamente di una sostituzione della funzione dei genitori con quella degli amici, l’adolescente continua ad aver bisogno di essere in relazione con le figure genitoriali, ma necessita sempre più di potersi sperimentare all’esterno per trovare uno spazio nuovo al suo nuovo modo di sentire e di viversi.
I cambiamenti nelle relazioni vanno di pari passo con i cambiamenti negli stati d’animo e nei sentimenti. In adolescenza assistiamo alla nascita di nuovi bisogni motivati dalla metamorfosi del bambino in adulto. La necessità di acquisire un senso di identità personale richiede al ragazzo di sperimentare nuovi modi di relazione, diversi da quelli della dipendenza infantile. Il bisogno di individuarsi come persona richiede di poter preservare uno spazio privato, al riparo dal controllo genitoriale, dove potersi ritirare in solitudine, per dare spazio alla fantasia, o da poter condividere con i suoi simili.
L’amicizia con i coetanei è il migliore antidoto nei confronti dell’insicurezza; nell’amicizia è possibile sentirsi compresi: raccontare i propri stati d’animo aiuta a superare la vergogna dovuta alla paura di non piacere nell’aspetto, nello status sociale o nel modo di porsi.
Questo tipo di funzione solitamente viene svolta da un amico preferenziale, l’amico del cuore, che diventa depositario e depositante, a sua volta, di una sorta di segreto: l’amico non è più un semplice compagno di giochi, come nell’infanzia, ma è una persona che attraversa la stessa condizione emotiva.
Il gruppo degli amici nel suo insieme svolge una funzione meno intima e privata ma altrettanto utile per sedare le ansie dell’emancipazione. La solidarietà che si crea all’interno del gruppo fornisce le garanzie, un tempo offerte dalla famiglia, per sperimentarsi in modo protetto; la cooperazione permette di potersi attivare insieme rispetto uno scopo sentendosi così sostenuti e condividendo le responsabilità. Il gruppo permette anche il confronto con i cambiamenti degli altri coetanei e di trasformare la paura di essere diversi e di sentirsi esclusi nella possibilità di corrispondere ad uno standard, spesso rappresentato da una segnale visibile che contrassegna l’appartenenza a quel gruppo. Più grande è il senso di diversità ed inadeguatezza e maggiore diventa il bisogno di omologazione.
La necessità di corrispondere ad uno standard si esprime anche nella scelta di un leader all’interno del gruppo o nella idealizzazione di “personaggi”, fuori dalla sfera familiare, che solitamente rappresentano gli anti-eroi del mondo infantile.
La precedente serenità dei genitori nel guardare le amicizie dei figli viene turbata di fronte a delle scelte e ad una modalità di partecipazione finora sconosciute, ma il gruppo, salvo in caso di evidente devianza che segnala la difficoltà e il bisogno di aiuto del ragazzo, solitamente è il mezzo più adatto per traghettare verso la propria personale stabilità.