// / L'effetto defemminilizzante dell'anoressia

L'effetto defemminilizzante dell'anoressia

di Gian Luigi Luxardi

A proposito di un commento di Susie Orbach sull’effetto defemminilizzante dell’anoressia.

Gian Luigi Luxardi
Susie Orbach, autrice del volume Hunger Strike afferma: « L’anoressia illumina le difficoltà d’ingresso in un mondo maschilista. La donna anoressica racchiude nel suo sintomo un modo di essere completamente opposto alla risposta flemmatica della sua sorella isterica dell’Ottocento. Non le si addicono i mancamenti, gli svenimenti … Invece di cadere svenuta per “fragilità femminile” la donna anoressica oggi, perdendo quelle curve che definiscono la femminilità e il ciclo mestruale, elimina i segnali più espliciti delle sue capacità riproduttive. In sostanza defemminilizza il suo corpo. ».
In modo simile, Arthur Crisp, nel suo libro A flight from growth descrive l’interruzione del ciclo mestruale come una fuga dalla femminilità verso un ruolo tranquillizzante di bambina. L’ingresso nella fase adolescenziale porta nuovi compiti, nuove relazioni da stabilire, aspettative diverse e contrastanti da parte degli altri. L’assunzione di un ruolo sessualizzato e soprattutto un corpo che si rivela ogni giorno più imprevedibile, per le sensazioni interne che genera e gli sguardi esterni che suscita, fa percepire in modo chiaro che la vita quotidiana, d’ora in avanti, sarà caratterizzata da rischi fino ad allora non contabilizzati. La riduzione del peso, con la scomparsa delle forme femminili da poco manifestatesi e il congelamento, effettivo e simbolico, della sessualità, realizza una regressione ad una fase infantile (precoce, peraltro, quando i genitori misurano il cibo e badano al peso del figlio) ben conosciuta e non conflittuale. Non sempre questo avviene con tempestività, da un punto di vista temporale. Talvolta la nuova identità viene acquisita con riserva, indossata, ma non pienamente metabolizzata. Mi è capitato proprio qualche giorno fa il caso di una donna di ventisette anni che, dopo un fidanzamento decennale, prima del matrimonio per cui evidentemente non si sentiva pronta, ha sviluppato una crisi anoressica, senza che ci fossero stati precedentemente segni in questo senso nel corso della sua vita.
L’affermazione della Orbach è stimolante e densa di sfumature, potrebbe ben rendere conto di questa fenomenologia. Mi chiedo tuttavia se i coetanei maschi, moderni Peter Pan che vestono la loro incapacità di crescere con altre trasgressioni e patologie (alcol, droghe, ecc.) siano in una situazione differente. L’impressione è che i comportamenti che noi clinici indirizziamo con definizioni patologiche possano essere, per chi li agisce, rimedi più o meno consapevoli (coerenti con la visione di sé, una ragazza perbene eccede in perfezionismo, non usa droghe) per proteggersi da una società che viene percepita poco rassicurante.
Tornando tuttavia alla Orbach, potremmo chiederci: cosa rendeva “adattiva” l’isteria nell’Ottocento e l’anoressia oggi?
L’isteria appare coerente con l’assetto normativo della società viennese in cui è stata descritta. L’educazione prevedeva un controllo rigido finalizzato a civilizzare i giovani che, in caso contrario, sarebbero diventati selvaggi, peccatori, antisociali. Ecco dunque il sintomo isterico che permette, in giovani donne di buona famiglia, l’esplosione di un desiderio non manifestabile se non attraverso lo schermo della patologia.
Oggi il concetto di educazione è del tutto diverso: gli adulti sono oblativi, c’è un incitamento continuo alla libertà e alla realizzazione dei propri desideri. Viviamo in una società dove apparentemente tutto è possibile e a disposizione. Come fa notare Pietropolli Charmet1, i genitori non pensano che il loro bambino sia tendenzialmente colpevole e che debba essere riscattato dall’educazione affinché si accorga degli innumerevoli vantaggi dell’obbedienza alle regole della società. Non credono che debba rinunciare alla soddisfazione dei suoi desideri perché troppo irruenti e incompatibili con il vivere sociale. Non pensano neppure di dover essere il mezzo di trasmissione dei valori in cui credono. Ritengono invece che il loro bambino sia fondamentalmente buono e che sarà loro compito assecondare e favorire le propensioni che naturalmente emergeranno.
Il bambino cresce quindi circondato da affetto e attenzioni, si sente il portatore della felicità della famiglia, ma viene calato in un ruolo che lo pone sotto i riflettori, è costretto ad essere qualcosa di speciale. Con l’attenzione perennemente rivolta su di sé, sempre con le parole di Charmet, finisce per sdoganare il narcisismo, diventa spavaldo ma è nello stesso tempo fragile.
In questo senso è più difficile concordare con l’affermazione della Orbach, se si parla di fragilità reale e non solo rappresentata. La fragilità viene dalla scarsa capacità di tollerare la sofferenza, cui il giovane non viene sottoposto, a differenza dei suoi coetanei che vivono in una struttura sociale più normativa.
Il confronto tra le due situazioni non è così facile, dove si cresce meglio? O meglio, qual è la quantità di dolore mentale che ci conviene saper sostenere?
Di norma i giovani se la cavano da soli, le ragazze si creano vincoli normativi ed elevati standard che gli adulti, con fair play, non sollecitano; i ragazzi utilizzano qualche lieve trasgressione e magari finiscono per “farsi l’Edipo con la polizia di quartiere”. Altre volte si instaurano circoli viziosi che portano ad un congelamento dello sviluppo normale e generano patologia.
Scavando ancora nell’affermazione di Susie Orbach emerge tuttavia un altro concetto, quello della necessità della donna di difendersi in una società governata dal potere maschile. Non si tratta certo di una novità dei nostri tempi o del mondo occidentale. Un contributo fondamentale delle studiose femministe è dato proprio dalla constatazione che il fatto di fare parte del genere femminile è un elemento potenzialmente patogenetico.
La donna vive la fondamentale contraddizione di potere essere riconosciuta solo aderendo agli standard di una società maschile e nel contempo di doversi tutelare dalla loro intrusività, magari a prezzo di una parte della sua libertà (andando in convento come nel medioevo o nascondendosi dietro il velo nelle società musulmane).
Nella nostra società possiamo considerare l’anoressia come una difesa estrema, una situazione eccezionale, ma la strategia abituale della donna è quella di diventare attiva protagonista nella gestione della sua immagine secondo modelli maschili.
A questo proposito, Susan Bordo2 spiega che l’attrattiva del corpo longilineo e asciutto ha a che fare con il suo incarnare, in modo apparentemente contraddittorio, la negazione dell’appetito (di potere pubblico, di indipendenza) di una donna a cui la tradizione assegna il ruolo principale di apportatrice di nutrimento emotivo e fisico per gli altri e, insieme, i valori maschili (autocontrollo, determinazione, freddezza, ecc.) della sfera professionale e pubblica a cui ha avuto accesso.
Di questi valori la donna si fa attiva portatrice, sceglie e desidera sottoporsi a diete rigorose, rimodellamenti chirurgici e trattamenti farmacologici di vario tipo. Partecipa attivamente alla riproduzione di una cultura sessista.
Cosa rende le donne così docili e collaboranti nella perpetuazione dell’ideologia dominante?
Focault parlava di corpi docili3, nel suo studio sugli strumenti di coercizione. La coercizione viene esercitata a livello dei movimenti, dei gesti, delle abitudini. Vengono creati “schemi di docilità” e docile è il corpo che per loro tramite può essere sottomesso, utilizzato, trasformato, perfezionato. Si tratta di un potere-senza-re, dove il controllo non ha bisogno di guardie armate, viene esercitato dal basso, incorporato nelle abitudini e nei modi di pensare di tutti i giorni.
In questo senso, le autrici di scuola femminista affermano che la società occidentale incoraggia le donne a considerare il corpo come un oggetto da controllare e da utilizzare per valutare la propria adeguatezza agli standard sociali. Un contributo importante è il concetto di consapevolezza del corpo oggettivato (OBC) che include la sorveglianza sul corpo, l’interiorizzazione degli standard corporei e una serie di credenze sull’aspetto corporeo.
La sorveglianza sul corpo implica uno sguardo verso sé stessi come se si fosse un osservatore esterno ed ha più a che fare con il controllo che con la cura di sé. Questo tipo di automonitoraggio dà forma al vissuto psicologico che la donna ha di sé, aumentando ansia e vergogna e riducendo la consapevolezza degli stati interni.
L’internalizzazione degli standard culturali sul corpo porta la donna a pensare che coincidano con i propri desideri, riducendo la sua capacità di apporsi alla pressione a conformarsi.
Le credenze sul controllo dell’aspetto fisico sono connesse all’idea che gli standard sono raggiungibili se ci si impegna in misura sufficiente, indipendentemente dai limiti della nostra biologia. Mi ha sempre molto colpito la somiglianza dei due brani che seguono. Il primo è stato scritto da NorbertElias4 nel 1937 e si riferisce all’assoggettamento al potere nella forma dell’autocostrizione: « Basta uno sguardo. Uno sguardo che sorveglia, uno sguardo che ciascun individuo, sentendolo pesare su di sé, finirà per interiorizzare al punto di essere l’osservatore di sé stesso. Così ciascuno eserciterà questa sorveglianza dentro di sé e contro di sé ».
Il secondo è la testimonianza di una ragazza sofferente di bulimia5: « Io lo so che mi faccio del male cercando a tutti i costi di vomitare. Ma devo essere magra indipendentemente da come mi accontenterei di essere, perché quando vado in giro con il mio ragazzo lui guarda le altre e fa commenti sul loro aspetto fisico, io mi sento sotto esame. Anche la compagnia, tutti guardano l’aspetto fisico. Se nel gruppo c’è una più magra di me oppure è vestita più alla moda di me è terribile. Io devo assolutamente andarmi a comprare qualcosa di nuovo anche se non vorrei. So che è una specie di ossessione sbagliata, ma quando la gente si accorge dei miei sforzi e mi fanno i complimenti, io sono ricompensata da tutti gli sforzi. Insomma mi sento bene ».
Concludendo, possiamo dire che l’anoressia fa esplodere le contraddizioni della società occidentale nei confronti della donna portando all’estremo le pratiche di sottomissione all’ideologia dominante, fino a farle collassare su sé stesse. Per le ragazze coartate e conformiste può trattarsi della prima occasione di ricerca di un’identità originale, come clinici è bene ricordarcelo. Da questo punto di vista dovremmo tutelare quanto possibile gli aspetti evolutivi che sono mascherati dall’espressione sintomatica. L’eccessiva attenzione alla necessità di cassare il sintomo può portare a perderli definitivamente.
Note.
1 Pietropolli Charmet, G, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi. Laterza, 2008.
2 Bordo S, Il peso del corpo. Tr. it Feltrinelli, 1997.
3 Focault M, Sorvegliare e punire, Tr. it. Einaudi, 1975.
4 Elias N, Potere e civiltà. Il processo di civilizzazione. Tr. It. Il Mulino, 1983.
5 Ostuzzi R, Luxardi GL, Figlie in lotta con il cibo. Baldini Castoldi Dalai, 2003.