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Un approccio ecologico all'obesità infantile

di Gian Luigi Luxardi

Un approccio ecologico all’obesità infantile

Gian Luigi Luxardi

L’aumento della prevalenza e della gravità dell’obesità infantile negli ultimi tre decenni ha presentato un andamento costante, nonostante la crescente attenzione che la comunità scientifica e la società nel suo complesso ha dedicato al problema. L’eccessiva adiposità è diventata il problema di salute principale nei paesi occidentali e, con diverse gradazioni, nei paesi in via di sviluppo. Il costo sociale e sanitario dell’obesità e del sovrappeso è elevatissimo.

Negli Stati Uniti, nella fascia di età compresa tra i 6 e i 18 anni, la prevalenza del sovrappeso (obesità inclusa) è salita dal 15,4% del periodo 1971-1974 al 25,6% del periodo 1988-1994 (Lobstein, 2004). Nell’Unione Europea, i dati più allarmanti sono a carico delle regioni meridionali, Italia, Spagna e Grecia in particolare. Dati relativi alla fascia di età 7- 10 anni mostrano una prevalenza di sovrappeso e obesità del 36% nel nostro paese, confrontabili con quelli della Spagna (34%), della Grecia (31%) e molto diversi da quelli di Inghilterra (20%), Francia (19%) e Germania (16%) (Lobstein e Frelut, 2003). Dati confermati dall’osservatorio Okkio alla Salute, promosso dal Ministero della Salute e dal Ministero della Pubblica istruzione, che nel corso del 2008 ha realizzato un’indagine su 45.590 alunni delle scuole terze primarie elementari in 18 regioni italiane. I risultati mostrano che il 12,3% dei bambini è obeso, mentre il 23,6% è in sovrappeso, calcolati sulla media nazionale, con un picco nelle regioni meridionali (28% di sovrappeso e 21% di obesità in Campania, come punta massima).

Considerando che il dato relativo all’obesità negli adulti in Italia risulta meno preoccupante o comunque simile a quello di altri paesi (9,1% contro il 22% dell’Inghilterra e il 13% della Spagna) (IOTF, 2002), l’emergenza obesità nel nostro paese risulta particolarmente rilevante a carico dei più giovani. Il dato è allarmante poiché si stima che circa il 50% dei bambini obesi mantenga tale condizione anche da adulti con tutte le note conseguenze per la loro futura salute (Lobstein et al., 2004).

Accanto al costo in salute, risulta rilevante il costo economico dell’obesità. Nella recente Carta di Istanbul (WHO, 2006) si afferma che i costi diretti dell’obesità assommano, nella regione europea, dal 2 al 4% della spesa totale per la salute. A questa va aggiunta la spesa per la componente indiretta (es. riduzione nella produttività del lavoro, diminuzione dei redditi familiari, ecc.). In base a queste considerazioni, l’Organizzazione Mondiale della Sanità giunge in questo documento ad affermare che “l’obesità è una minaccia per la salute, l’economia e lo sviluppo” (WHO, 2006). Di fronte alle dimensioni rilevanti del problema, a tutt’oggi non vi è un’indicazione chiara relativa ai possibili trattamenti. Siamo in presenza di una pluralità di esperienze, alcune delle quali con buoni risultati, specie nella fascia preadolescenziale (Flodmark, 2004) ma, come indica una recente review Cochrane, ci sono pochi studi le cui conclusioni permettano di delineare trattamenti efficaci (Oude Luttikhuis et al., 2009).

Possiamo immaginare che questa difficoltà sia attribuibile alla condizione complessa che sottende il problema obesità, in cui fattori diversi a vari livelli (individuale, familiare, sociale) si intrecciano e rendono il problema difficilmente affrontabile attraverso interventi diretti ad aspetti settoriali. Si riscontrano una pluralità di comportamenti a rischio, il cui legame con lo sviluppo dell’obesità appare però debole. Sebbene il contributo di ognuna delle condizioni di rischio sia limitato, il loro impatto combinato risulta amplificato in maniera sinergica (Swiburn, Egger, 2004). La combinazione dei fattori di rischio nel nostro ambiente di vita fa si che l’aumento di peso rappresenti una tendenza per default per la maggioranza della specie umana (Caballero, 2007).

Lo scopo di questo lavoro è di delineare un quadro complessivo, relativo all’obesità infantile, che contribuisca a delineare i fattori in gioco nel loro rapporto reciproco. Da ciò può discendere un razionale per la costruzione di un intervento. Pur limitandoci alla condizione infantile, non è possibile prescindere da considerazioni relative alla condizione psicologica individuale, al gioco relazionale familiare e al più generale contesto sociale in cui il bambino è inserito.

Psicologia del bambino obeso

Se è vero che l’obesità ha sempre a che fare con un eccessivo introito calorico rispetto ai fabbisogni dell’organismo e alle richieste per l’attività svolta, ci sono molti e complessi aspetti psicologici che condizionano e accompagnano questa condizione. Secondo alcuni studiosi l’obesità sarebbe la conseguenza di conflitti e disagi psicologici irrisolti, secondo altri le problematiche psicologiche che si osservano nelle persone obese (ad esempio la bassa autostima, l’immagine corporea negativa, l’anassertività) sarebbero conseguenze della stigma che accompagna i soggetti obesi nella nostra società (Braet et al, 1997).

Per ciò che riguarda il primo versante del problema, tra i fattori predisponenti è stato segnalato il ruolo significativo del temperamento (Thomas, Chess, 1977), inteso come modalità innata di espressione degli stati emotivi e di interazione con l’ambiente. Il bambino, alla nascita, manifesterebbe già attitudini caratteriali che possono favorire lo sviluppo dell’obesità. Ad esempio, l’irrequietezza nella prima infanzia può portare il genitore a usare il cibo per tranquillizzarlo. In seguito questo bambino sarà portato ad utilizzare il cibo come mezzo di conforto nelle situazioni stressanti. Alcuni bambini fanno più fatica di altri nel decifrare i segnali provenienti dal proprio corpo (fame, sonno, evacuazione). Questa confusione potrebbe spiegare le difficoltà del bambino a seguire le normali indicazioni di comportamento, anche quelle relative al trattamento del sovrappeso. Dobbiamo precisare che le attitudini caratteriali innate interagiscono con lo stile educativo della famiglia, che può correggere i comportamenti inadeguati o esasperare le reazioni del bambino.

Gli studi sulla personalità del bambino obeso (Marcelli, 1996) gli attribuiscono una tendenza alla passività, alla dipendenza dalle figure genitoriali, in particolare la madre, e alla depressione. Non è facile comprendere se questi tratti siano la causa del rapporto alterato con il cibo o la conseguenza dell’immagine negativa di sé dovuta allo stato di obesità. Altri autori parlano della tendenza molto presente nelle persone obese a ridurre l’ansia con l’assunzione di cibo (Stunkard, 1959). Questa ipotesi si fonda su una concezione psicosomatica dell’obesità, secondo cui gli individui obesi non avrebbero imparato a distinguere tra fame e ansia (Kaplan e Kaplan, 1957). Su una linea simile si muovono gli studi pionieristici di Hilde Bruch negli anni ’70 (Bruch, 1971). Questa studiosa ipotizzava una difficoltà del bambino a riconoscere fame e sazietà e a distinguerle da altre sensazioni di malessere legate a stati corporei o emotivi. Secondo la Bruch il bambino prova alla nascita sensazioni indifferenziate di malessere o benessere e impara a distinguere e comprendere i diversi bisogni corporei (fame, sete, bisogno di contatto, sonno, ecc.) attraverso le risposte della madre, che riconosce le richieste del suo bambino e le affronta in maniera diversificata e corretta. Se la madre è in difficoltà nel riconoscere il motivo del pianto del figlio, l’offerta del seno o del cibo rappresenterà comunque una risposta valida a placare il malessere e fornirà al bambino una inconsapevole indicazione: “se stai male il cibo può farti stare meglio”. Il cibo, usato dalla madre in modo improprio, diventa inconsapevolmente per il bambino la risposta valida per qualsiasi tipo di disagio. Questa funzione polivalente dell’alimentazione si manterrà anche nell’età adulta quando ogni tipo di sensazione ed emozione, negativa e positiva, potrà trasformarsi nella ricerca di cibo.

Le teorie psicoanalitiche psicosomatiche pongono l’attenzione sulla difficoltà degli individui obesi a descrivere i propri stati emotivi. La mancanza di una capacità di discriminazione dei propri stati affettivi ed emotivi e la difficoltà di costruirne rappresentazioni elaborate conduce comunque all’adozione di comportamenti, anche se mal diretti, comunque efficaci a ridurre la tensione. Questo stato viene definito alessitimia, ovvero incapacità di riconoscere ed esprimere verbalmente le proprie emozioni. Alcune ricerche hanno mostrato come le famiglie dei bambini obesi presentino uno stile comunicativo carente nel descrivere le emozioni, soprattutto se si tratta di sentimenti negativi e conflittuali (Molinari, 1996).

Sul versante delle teorie cognitive, recenti studi (Van Vlierberghe et al., 2009) pongono l’attenzione sulla presenza di schemi maladattivi, secondo la classificazione di Young (2003), correlati con la perdita di controllo con il cibo. Lo studio citato rileva che giovani adolescenti con perdita di controllo presentano schemi deficitari relativi ai bisogni di sicurezza e stabilità (sfiducia/abuso e abbandono/instabilità), all’integrazione sociale (esclusione sociale/alienazione), alle proprie prestazioni (fallimento). Lasciano agli altri una eccessiva capacità di controllo (sottomissione) e presentano aspettative irrealistiche (standard severi/ipercriticismo) nella convinzione di dover soddisfare elevati standard prestazionali o etici.

Altri autori sottolineano la dipendenza dagli stimoli e dai rituali legati al cibo. Secondo la teoria dell’esternalità (Schachter, Rodin, 1974) l’odore, il gusto, la presentazione del cibo scatenano di per sé il desiderio di mangiare, ignorando la sensazione interna di sazietà. Questi soggetti vengono definiti “mangiatori esterni” e l’esternalità viene considerata un tratto di personalità. Dal lato opposto, i “mangiatori interni” sarebbero più sensibili ai segnali provenienti dall’interno del corpo (fame e sazietà). In uno studio degli anni ’70 (Rodin, Slochower, 1976) 107 ragazze tra 9 e i 15 anni che partecipavano ad un campo estivo vennero poste nella condizione di poter disporre di cibo senza alcuna limitazione. Il risultato fu che le giovani con un più elevato punteggio di esternalità al termine dell’esperimento presentavano un aumento di peso maggiore delle altre. Può essere discutibile se l’esternalità rappresenti un tratto originario di personalità o sia uno stile alimentare conseguente alla condizione di obesità, di fatto i bambini obesi presentano uno stile esterno (Braet, Van Strien, 1997) e le tecniche terapeutiche focalizzate sulla riduzione della risposta agli stimoli alimentari hanno mostrato buoni risultati (Wilson, 1994).

Sul versante delle conseguenze psicologiche dello stato di obesità, ci riferiamo al rischio di emarginazione del bambino obeso, che influisce in maniera determinante sullo sviluppo della sua psicologia. Il bambino obeso è spesso oggetto di derisione e rifiuto da parte dei compagni, in gran parte a causa di un diffuso e ingiustificato pregiudizio verso l’obesità presente nella nostra società (Stroe, 1996). Questo atteggiamento negativo è presente in tutte le età, in tutte le classi sociali, nel personale sanitario e negli stessi individui obesi (Hill, 1993; Hill, Pomeroy, 2001). Le conseguenze sui livelli di autostima e sull’integrazione sociale sono importanti e conducono a quel circolo vizioso in cui il bambino obeso, in difficoltà nei rapporti con gli altri e in particolare nelle attività sportive (Gortmaker et al, 1993), si convince di avere poche risorse personali, assume modalità comunicative anassertive e adotta un atteggiamento rinunciatario che lo porta a preferire occupazioni sedentarie e solitarie (TV e videogiochi). L’obesità finisce per assumere una funzione di organizzatore dell’attività mentale, sul piano cognitivo può diventare la spiegazione causale di tutti gli eventi della vita (Molinari, Compare, 2007).

Il disagio del bambino obeso si gioca primariamente sul fronte dell’immagine corporea. L’immagine corporea è il modo in cui una persona considera e sperimenta il proprio corpo. Ha a che fare con il modo di percepirsi, con le convinzioni, con i sentimenti che il nostro corpo ci suscita, in base alla nostra storia personale, al rapporto con gli altri e al contesto culturale a cui apparteniamo (Schilder,1950), è in ultima analisi una costruzione psico-sociale. Naturalmente tutte queste componenti interagiscono reciprocamente tra loro (Thompson, et al., 1995). Un’esperienza negativa, come ad esempio una presa in giro, può portare a sviluppare convinzioni sfavorevoli rispetto alla nostra immagine: tali convinzioni predisporranno a loro volta ad una emotività caratterizzata da insicurezza legata alla paura di poter essere giudicati negativamente.

La nostra immagine corporea diventa negativa, e quindi fonte di insicurezza, quanto più sentiamo che il nostro aspetto reale si discosta dagli ideali estetici a cui la società fa riferimento. Il fatto che la magrezza negli ultimi decenni sia diventata un valore “etico”, necessario per attribuire o meno valore ad una persona, ha portato ad un diffuso sentimento di insoddisfazione per il proprio corpo largamente presente tra la popolazione, al punto da diventare un elemento strutturale della nostra esistenza (Ostuzzi, Luxardi, 2003; 2007).

Questo atteggiamento è riscontrabile anche nei soggetti molto giovani. Alcuni studi (Thompson, Smolak, 2001), effettuati negli Stati Uniti, in Australia e in Inghilterra, indicano che quote significative di bambini sin dalle elementari sono scontenti del loro peso e della forma del corpo. Circa il 40% delle bambine e il 25% dei maschi mostravano insoddisfazione per la propria taglia e esprimevano il desiderio di essere più magri. Tra le ragazze adolescenti questi risultati erano ancora più estremi, con un’oscillazione tra il 50 e l’80%.

Analoghi risultati sono stati osservati anche in studi condotti su adolescenti italiani. Uno studio su 400 studenti (Faccio, Fusa, 2005) segnala che il 98% delle studentesse e il 90% dei ragazzi riferiscono di provare disagio per almeno una parte o caratteristica del proprio corpo.

Una immagine corporea negativa, la bassa autostima, il disagio psicologico nell’obesità infantile diviene rilevante quando si affianca alla possibile presa in giro in famiglia, la derisione e l’evitamento dei coetanei, compagni di scuola e/o amici. Il ragazzo percepisce chiaramente l’importanza che l’ambiente sociale attribuisce all’aspetto esteriore. I genitori possono influire sullo sviluppo dell’immagine corporea dei figli attraverso commenti sul loro aspetto fisico, sul loro modo di vestire oppure richiedendo di aderire a particolari modelli estetici o invitandoli a fare attenzione al loro modo di mangiare per evitare di ingrassare. Ma ciò che risulta ancora più determinante è la presenza dello stesso disagio nei genitori stessi. In particolare, genitori che attribuiscono grande importanza all’aspetto fisico, che praticano diete restrittive o che fanno esercizio fisico per controllare il peso, possono inconsapevolmente trasmettere il messaggio che è importante focalizzare la propria attenzione sull’apparenza esteriore (Decaluwé et al., 2006).

I soggetti che hanno sviluppato un più elevato disagio per il corpo presentano con maggiore frequenza la diagnosi di Disturbo da Alimentazione Incontrollata (DAI). Si tratta di un disordine del comportamento alimentare la cui presenza è stimata dal 20% al 50% degli adulti obesi che richiedono un trattamento (Spitzer et al, 1993; Bruce, Wilfley, 1996; Varnado et al, 1997). Le persone che soffrono di questo disturbo presentano abbuffate, ossia assunzioni di grandi quantità di cibo accompagnate da una penosa sensazione di perdita di controllo, senza tuttavia utilizzare mezzi di eliminazione del cibo (vomito, digiuno, esercizio fisico intenso) come fa invece chi soffre di bulimia. Le crisi di iperalimentazione si accompagnano a emozioni negative, a sensi di colpa e vergogna. I soggetti che presentano un DAI manifestano una sofferenza psichica maggiore degli altri individui obesi, con depressione, frequenti sensi di colpa, bassa autostima e un vissuto corporeo negativo.

La domanda relativa alla presenza e alla forma di questo disturbo tra i bambini non ha ancora ricevuto risposte definitive. Alcuni studi su adulti obesi hanno visto che l’esordio del disturbo da abbuffate risaliva agli 11 e 13 anni (Spurrel et al, 1997). Uno studio più recente su un campione di bambini e adolescenti conferma l’esordio del DAI prima dell’adolescenza (Decaluwé, Braet, Fairburn, 2003), dimostrando che l’11% dei bambini obesi hanno episodi di binge eating, un altro 11% presenta episodi obiettivi di iperalimentazione, mentre un altro 20% riporta perdite di controllo.

Stice (1999) ha seguito la crescita di 216 bambini dalla nascita ai cinque anni. Da questo studio è emersa l’importanza di due comportamenti, quello di mangiare in eccesso e quello di mangiare di nascosto, che sono stati riscontrati rispettivamente nel 34% e nel 18% circa dei casi. Entrambi questi comportamenti sono apparsi correlati con un eccesso ponderale del bambino, ma anche a caratteristiche dei genitori. In particolare l’attitudine a mangiare in segreto è apparsa in relazione con una marcata insoddisfazione corporea della madre, così come ad una storia di sovrappeso da parte del padre. Le abbuffate nel bambino sono state invece riscontrate in prevalenza in famiglie in cui la madre mostra un forte desiderio di dimagrire e un’alimentazione restrittiva. Questo studio è rilevante anche perché evidenzia che questi comportamenti siano rintracciabili già in età precoce.

I dati presentati fanno pensare ad una presenza rilevante del Disturbo da Alimentazione Incontrollata tra i bambini e gli adolescenti, probabilmente con caratteristiche leggermente diverse da quelle presenti negli adulti. L’elemento centrale sembra essere la perdita di controllo e l’utilizzo del cibo come risposta polivalente a situazioni di sofferenza emotiva (ansietà, depressione, cattivo umore, preoccupazione) anche in assenza di fame (Decaluwé, Braet, 2003). I bambini che riportano maggiormente perdita di controllo e alimentazione emotiva presentano in misura rilevante strategie maladattive di regolazione emotiva (Czaja, Rief, Hilbert, 2009).

Il tasso di bambini e adolescenti obesi che ricevono una diagnosi DSM-IV è piuttosto elevato, maggiore di quello riscontrabile tra i coetanei diabetici (Zipper e al, 2001), e verte prevalentemente sui disturbi ansiosi e depressivi. Questi dati appaiono correlati alla psicopatologia familiare (Epstein et al, 1994; Decaluwé et al, 2006).

In generale possiamo dire che l’alimentazione emotiva e la perdita di controllo rappresentano una condizione piuttosto frequente e difficile da curare. I bambini che presentano questo disordine alimentare generalmente non accettano le prescrizioni dietetiche. Talvolta ciò è legato a precedenti esperienze di fallimenti della dieta che hanno favorito idee di impotenza e inefficacia. I tentativi di restrizione imposti dai genitori creano molte resistenze; di fronte ai limiti prescritti i ragazzi giungono a rubare cibo o a farsi prestare soldi per acquistarlo e mangiarlo di nascosto. Non dobbiamo dimenticare che per questi ragazzi il cibo è una sorta di medicina, di auto-cura, che viene usata per lenire l’insoddisfazione di sé. Atteggiamenti costrittivi, punitivi o di critica vanno ad alimentare il disagio e non certo a ridurlo. È invece opportuno favorire l’espressione dell’emotività, con un atteggiamento di accettazione e tranquilla curiosità, che possono aiutare il ragazzo ad esprimere le proprie emozioni accrescendo così la propria autostima e la voglia di sperimentarsi.

La famiglia del bambino obeso

Gran parte delle osservazioni sull’obesità infantile pongono grande attenzione alle dinamiche psicologiche che si sviluppano tra il bambino e le figure che lo accudiscono. Oggetto di studio in questi ultimi anni sono stati gli stili di attaccamento. Trombini e colleghi (2003) segnalano la prevalenza significativa di uno stile di attaccamento insicuro tra le madri dei bambini obesi, in rapporto al gruppo di controllo. Secondo gli autori queste madri tendono a fare della famiglia l’unico centro di interesse, si dedicano ai figli con atteggiamento possessivo e iperprotettivo, mostrano un costante bisogno di essere riconosciute nella loro funzione materna.

Valeria Ugazio (1998) ha ipotizzato la presenza, nelle famiglie con disturbi alimentari, di semantiche caratterizzate dalla polarità “vincente vs perdente”, intorno alle quali si costruisce il senso della relazione e l’identità degli individui. Normalmente la mamma attribuisce al figlio una posizione di supremazia che non rispecchia sicuramente le reali forze in gioco. Attraverso questo potere che gli viene concesso, il bambino si sente sufficientemente tranquillo per sperimentare una vasta gamma di modalità di espressione emotiva, comprese le emozioni negative. La madre del bimbo obeso sembra invece accentuare la propria posizione di supremazia che il figlio già naturalmente le attribuisce. Questa relazione lascia poco spazio ad una interazione emotiva modulata tra mamma e figlio, limitando l’apprendimento di nuove abilità di gestione del rapporto da parte del bambino e favorendo l’instaurarsi di un comportamento passivo e dipendente.

Ganley (1986) sottolineava la centralità dei pattern relazionali familiari nello sviluppo e nel mantenimento dell’obesità nel bambino. Lo stesso autore (1992), in una ricerca che includeva 120 madri di bambini obesi, ha evidenziato come queste apparissero più disimpegnate e rigide. La coppia coniugale mostrava un basso livello comunicativo e si riscontravano reazioni negative all’espressione di emozioni, con difficoltà nella gestione dei sentimenti di rabbia. Baldaro e colleghi (1992) hanno evidenziato come i bambini obesi e le loro madri non riescano a decodificare le espressioni facciali di emozioni, in particolare quelle negative, con la stessa precisione dei bambini normopeso e delle loro madri.

Un contributo importante allo studio delle configurazioni relazionali correlate ai problemi di obesità viene da Salvador Minuchin (1978). Questo autore individuò quattro configurazioni familiari in grado di favorire l’insorgenza di sintomi “corporei”, tra i quali anche l’obesità. Questi quadri relazionali vengono identificati come invischiamento, iperprotettività, rigidità, incapacità di risoluzione del conflitto; la loro combinazione, protratta nel tempo, favorisce l’espressione dei conflitti emotivi attraverso sintomi somatici.

Le famiglie invischiate si caratterizzano per l’elevato coinvolgimento reciproco dei componenti, fino a livelli patologici. Tra i familiari ci sono continue intrusioni nel campo dell’affettività e delle opinioni personali, non esistono spazi privati e ci si sente in difetto se si tiene qualcosa per sé. Questa forzata condivisione comporta un deficit nell’acquisizione delle capacità di percepire e distinguere i segnali emotivi propri e altrui, mentre l’assunzione emotiva di cibo diventa un modo per sedare le emozioni negative (preoccupazione, noia, solitudine).

L’iperprotettività è la tendenza ad esercitare un controllo elevato e a vivere in maniera emotivamente intensa tutto ciò che accade in famiglia. Il figlio oggetto delle preoccupazioni e della sollecitudine dei genitori finisce per rinforzare i dubbi che nutre su se stesso, amplificati dalla percezione della preoccupazione dei familiari. Le modalità apprensive dei genitori creano ansia e insicurezza a cui il ragazzo non sa far fronte se non in modo passivo, cioè limitando il proprio raggio di azione e la sua autonomia. A questa sua incapacità conseguirà un sentimento di impotenza, sensi di colpa verso i genitori ed emotività negativa che possono dar seguito sia ad atteggiamenti depressivi e rinunciatari sia a sentimenti di ostilità e risentimento.

Un atteggiamento rigido e autoritario da parte dei genitori rappresenta un altro ostacolo alla maturazione dell’autonomia del figlio. Questo atteggiamento può arrivare a determinare quando, cosa e quanto il bambino deve mangiare. Ciò danneggia la naturale capacità del bambino di autoregolarsi nell’alimentazione. Il bambino tenderà a mangiare in rapporto alle sollecitazioni esterne, piuttosto che in risposta ai propri stati interni, sviluppando quella dipendenza dall’ambiente nella propria alimentazione che viene spesso descritta nelle persone obese.

Queste modalità comunicative sono coerenti con l’atteggiamento di evitamento dei conflitti, che in queste famiglie vengono considerati pericolosi e ingestibili. Crescendo in questo contesto, il bambino non ha la possibilità di sperimentare che le situazioni di conflitto possono invece essere tollerabili e gestibili, non portano ad una frattura familiare e possono essere risolte in un modo o nell’altro. Il figlio tenderà a perpetuare il timore dei genitori di doverle affrontare. Sia la capacità di superamento delle emozioni conflittuali (rabbia, risentimento) che la costruzione di una buona autostima vengono in questo modo fortemente ostacolati.

Un altro filone di studi analizza le variabili mediazionali sottostanti la trasmissione di comportamenti alimentari disfunzionali. I modi di fare della famiglia possono influire sull’adozione di particolari comportamenti e atteggiamenti da parte del bambino. Comportamenti impropri nei confronti del cibo o del corpo da parte dei genitori vengono facilmente adottati dal figlio che li vive come corretti e giustificati.

Un comportamento alimentare a rischio è quello che prevede l’utilizzo del cibo come elemento di gratificazione, di premio e talvolta anche di punizione, comportamenti che favoriscono la connessione della risposta alimentare a stati emotivi che non hanno nulla a che fare con la fame (Birch, 1987; Johnson, Birch, 1994).

I genitori mediano il rapporto con l’ambiente del bambino anche per ciò che riguarda gli aspetti emotivi legati al cibo. Lissau e Sorensen (1994) hanno mostrato un rischio di obesità nove volte più alto nei bambini trascurati emotivamente, e tre volte maggiore per quelli che vivono in condizioni di disagio economico. Un altro studio (Strauss, Knight, 1999) ha riscontrato una percentuale di rischio doppia nei bambini che hanno avuto una stimolazione cognitiva ridotta, comparato con chi ha avuto una stimolazione più elevata. Il comportamento dei genitori, lo stile educativo e il clima emotivo familiare influenza l’atteggiamento dei figli verso l’alimentazione e ne è a sua volta influenzato (Ventura, Birch, 2008).

La mediazione dei familiari è cruciale nella gestione del tempo libero. Il tempo passato davanti alla TV è stato associato all’incremento dell’obesità (Dietz, 1995; Crespo et al., 2001; Gortmaker et al., 1996; Krassas et al., 2001), in quanto correlato con un aumento dell’assunzione di cibo, influenzato anche dalla massiccia pubblicizzazione di prodotti alimentari, e ad una riduzione dell’attività fisica (Epstein, Roemmich, Paluch, Raynor, 2005). Non è facile trovare una casa senza uno o più apparecchi televisivi (Neilsen Media Research, 2000) ed è cresciuta la percentuale di bambini che hanno una TV nella propria camera (Dennison, Erb, Jenkins, 2002). Uno studio condotto negli Stati Uniti su 4.063 ragazzi dagli 8 ai 16 anni ha valutato nel corso di sei anni il tempo dell’attività fisica e le ore passate davanti al televisore (Robinson et al, 1993; Robinson, Killen, 2001). Ne è emerso che i giovani che passavano più di quattro ore al giorno davanti al teleschermo presentavano maggiori livelli di adiposità nell’organismo e un più alto indice di massa corporea di quelli che guardavano la TV per meno di due ore.

Le abitudini relative all’attività fisica sono mediate attraverso le routine familiari. In una review sui correlati dell’attività fisica, uno dei fattori determinanti è risultato il tempo passato fuori casa, fattore largamente determinato dai genitori (Sallis, Prochaska, Taylor, 2000). L’incoraggiamento, il coinvolgimento in prima persona, il fatto di rappresentare un modello nello svolgimento dell’attività fisica sono comportamenti genitoriali con un forte valore predittivo di un analogo comportamento nel bambino. I genitori possono inoltre ridurre la sedentarietà nel bambino, determinando il tempo del figlio davanti alla TV o al computer (Nowicka, Flodmark, 2007).

Queste considerazioni ci portano ad allargare la prospettiva dall’ambiente familiare al più generale contesto sociale in cui il bambino e la sua famiglia sono inseriti. I mutamenti della società hanno influenzato profondamente i comportamenti delle famiglie, anche rispetto agli argomenti che stiamo trattando. Il numero dei nuclei in cui entrambi i genitori lavorano è aumentato (Anderson, Butcher, 2006), così come le famiglie con un unico genitore (Bowers,2000), con la conseguenza che vi è poco tempo da dedicare ai figli, anche per quanto riguarda la preparazione dei pasti e l’educazione alimentare. Il momento del pasto è sempre meno legato all’ambiente familiare ed aumentano i pasti consumati da soli e fuori casa (National Restaurant Association, 1998), con porzioni più grandi (Rolls, 2003) e maggiore introito calorico (Biing-Hwan, Guthrie, Frazao, 1999). I cambiamenti sociali hanno modificato profondamente la vita familiare, facendole perdere quella capacità regolativa dell’alimentazione data anche dalla ritualità dei pasti. Spesso le scelte alimentari, per mancanza di tempo (ma anche perché si è persa l’abitudine a cucinare), ricadono su cibi pronti. Tutti questi aspetti hanno rimosso ogni argine a limitare consumi sregolati e inconsapevoli di cibo.

La famiglia non è un’isola ed è importante considerare le implicazioni relative all’ambiente in cui i soggetti costruiscono la propria nicchia ecologica.

Un problema di adattamento?

C’è un generale accordo sul fatto che l’aumento del tasso di obesità sia dovuto, almeno in parte, al cambiamento dell’ambiente in cui viviamo (Hill, Wyatt, Reed, Peters, 2003), che porta ad una riduzione dell’attività fisica a fronte di una maggiore disponibilità alimentare, (French, Story, Jeffery, 2001) caratterizzata dalla presenza di cibi sempre più allettanti e ipercalorici. L’obesità è un problema sociale e i modelli psicologici devono considerare il fatto che le persone vivono in un ambiente tossico (Horgen KB, Brownell KD, 2002), che può influenzare il bambino ad un macrolivello, oltre le influenze psicologiche (Braet, 2005). Caroli (1998) sostiene che allo stato attuale delle conoscenze non vi sono studi prospettici che dimostrino se e quali caratteristiche psicologiche siano alla base dello sviluppo dell’obesità, mentre vi sono studi che dimostrano l’importanza del fattore genetico e di quello sociale.

Un rapporto della Associazione Internazionale per lo Studio dell’Obesità (IASO International Obesity TaskForce) del 2004 sottolinea una serie di fattori sociali che hanno contribuito ad accentuare il rischio di obesità: incremento dell’uso dell’automobile e dei mezzi motorizzati, per esempio per andare a scuola, e aumento del rischio della circolazione per ciclisti e pedoni; diminuzione delle opportunità per fare attività fisica a livello ricreativo e aumento di quelle di tipo sedentario; disponibilità di trasmissioni televisive a tutte le ore della giornata; maggiore disponibilità e varietà di alimenti ipercalorici e incremento della loro pubblicizzazione; facilità di acquisto del cibo; maggiore utilizzo di ristoranti e fast food e aumento delle “offerte speciali” che propongono maggiori quantità a prezzo conveniente; aumento della frequenza delle occasioni in cui si mangia, da soli o in compagnia; uso crescente delle bibite zuccherate al posto dell’acqua.

Generalmente questi fattori vengono percepiti come elementi di sviluppo e di miglioramento della qualità della vita, specialmente nei paesi emergenti. L’inversione di questa tendenza richiede una elevata consapevolezza, da parte dei governi e della popolazione, delle conseguenze negative per la salute (e in ultima analisi per l’economia) di questo modello di sviluppo.

I problemi connessi all’uso sociale del cibo hanno radici antiche. Nella storia dell’umanità, tranne che negli ultimi 50 anni, il problema principale è sempre stato la carenza di cibo. I nostri antenati sono stati in grado di sopravvivere a queste carestie grazie alla loro capacità di accumulare grasso e alla tendenza a mangiare tutto il cibo disponibile nei periodi di prosperità per farne una riserva energetica. Come osserva Montanari (2004), l’abbondanza di cibo tipica delle società post-moderne pone problemi nuovi e di difficile soluzione ad una cultura storicamente segnata dalla paura della fame e dal desiderio di mangiare molto. L’irresistibile attrazione dell’eccesso, che una millenaria storia di fame ha impresso nei corpi e nelle menti, fa si che nei paesi ricchi le malattie da eccesso alimentare, un tempo privilegio di pochi, diventino fenomeni di massa sostituendo le tradizionali malattie da carenza.

Oggi, in presenza di una sovrabbondanza di cibo, assistiamo ad una frenetica e ossessiva ricerca di un corpo magro: mangiare in modo “misurato” è diventato oggi una necessità fisiologica e psicologica. Questa necessità di controllo del cibo e del peso è fortemente influenzata dalla cultura della nostra società, che condanna senza appello, dal punto di vista medico e sociale, l’obesità e ogni eccesso di peso. La “spinta alla magrezza”, in presenza di una maggiore disponibilità pro capite di calorie (disponiamo di circa 3500 calorie mentre ne bastano circa 2400 per un adulto sano e attivo) e con un peso medio della popolazione che tende a crescere, crea un vero e proprio paradosso che conduce non di rado a comportamenti alimentari disturbati. L’oggetto del desiderio della nostra società è un corpo patologicamente magro. Sono sempre più numerose le persone che adottano comportamenti alimentari di controllo del peso (Ostuzzi, Luxardi, 2003).

Queste considerazioni, relative al contesto sociale del problema, presentano un correlato profondo nel funzionamento del nostro corpo. La specie umana è evoluta nella rigorosa necessità di difendersi dalle carestie. Le difese organiche contro la perdita di peso sono estremamente efficienti, mentre c’è una maggiore tolleranza per l’eccesso ponderale, unicamente perché questo problema, fino ai nostri giorni, non si è mai presentato. I meccanismi neuro-endocrini situati all’interno del sistema limbico relativi alla prevenzione dalla malnutrizione (ipotalamo ventro-mediale), al circuito della ricompensa (area ventrale del tegmento e nucleo accumbens) e della gestione dello stress (amigdala), favoriscono la ricerca di cibo, i comportamenti alimentari compulsivi e la riduzione della spesa energetica (Mietus-Snyder, Lustig, 2008). In un ambiente stressante con facile accesso a cibi altamente palatabili e ipercalorici e una limitata necessità di attività fisica, l’aumento di peso è praticamente inevitabile.

A questo quadro va aggiunto il fatto che i tentativi di risolverete il problema si sono rivelati fattori peggiorativi. Sulla base delle osservazioni cliniche e degli studi sperimentali, i comportamenti di dieta non possono essere mantenuti nel tempo, portano inevitabilmente a ricadute con recupero del peso perduto e originano episodi di alimentazione compulsiva. Ciò vale per gli adulti come per i bambini (Decaluwé, Braet, 2005). Secondo il modello dei restrittori (Herman, Polivy, 1980), le persone che si sottopongono frequentemente a diete alterano i limiti biologici della fame e della sazietà e sostituiscono questi segnali interni con un controllo su base cognitiva. Le possibilità di fallimento della dieta aumentano quanto più la restrizione è accentuata e in relazione all’atteggiamento emotivo con cui viene intrapresa. Ciò significa che il bambino che viene sottoposto ad una dieta restrittiva può paradossalmente veder peggiorare i propri problemi di perdita del controllo sull’alimentazione.

Se osserviamo il problema da un punto di vista ecologico, l’obesità appare una risposta normale ad un ambiente che si va strutturando in senso obesogeno. In altre parole l’obesità finisce per rappresentare la naturale conseguenza adattativa alle attuali condizioni di vita.

Se il nostro stile di vita ci porta ad ingrassare, abbiamo due possibilità: lottare contro le risposte di adattamento che il nostro organismo naturalmente sviluppa o modificare l’ambiente e lasciare che siano le risposte di adattamento a farci dimagrire.

Per quanto questa sfida possa sembrare titanica, rappresenta in realtà l’unica strada percorribile.

I genitori hanno una parte importante in questo contesto. In primo luogo perchè, almeno quando il bambino è molto piccolo, il suo ambiente di vita è in gran parte determinato dai familiari. Infatti, sebbene non possano controllare ogni aspetto della vita del figlio, sono loro che decidono cosa acquistare e mettere a disposizione del bambino, la preparazione dei pasti e le porzioni. Ma sono sempre loro che fungono da modello per l’apprendimento delle abitudini che costituiranno lo stile di vita futuro del bambino, per quanto riguarda l’attività, i comportamenti sedentari, ma anche il modo di comunicare e l’espressione delle emozioni.

L’intervento con la famiglia

Esistono forti evidenze a favore del coinvolgimento dei familiari nel trattamento dei problemi di peso dei bambini (Young et al, 2007; Nowicka, Flodmark, 2008; Golan, Weizman, Apter, Fainaru, 1998; Epstein, Paluch, Roemmich, Beecher, 2007; Golan, 2006). In occasione della già citata conferenza di Istanbul, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha espresso in modo chiaro la necessità del coinvolgimento dei genitori nel trattamento dell’obesità infantile: “Ogni trattamento efficace deve tenere conto dell’influenza della famiglia sulle abitudini del bambino relative a cibo e attività fisica. Il coinvolgimento dei familiari nei programmi di trattamento è necessario per il successo della perdita di peso, sia per quanto attiene ai bambini che, in misura minore, agli adolescenti” (WHO, 2006).

Gli approcci family-based si sono sviluppati negli ultimi venticinque anni e sia i risultati a breve termine che quelli a lungo termine testimoniano la loro efficacia (Epstein et al, 2007). Storicamente, i trattamenti family- based hanno coinvolto il bambino e almeno un genitore. Per ciò che riguarda l’impianto teorico e l’organizzazione c’è in realtà una grande differenziazione. I livelli di coinvolgimento del genitore sono diversi e i programmi vanno dalla modificazione del comportamento, alla terapia cognitivo comportamentale, al problem solving, alla terapia sistemica (Israel et al., 1986; Flodmark et al., 1993; Graves et al, 1988; Epstein et al, 2000, 2007). Si diversificano anche sul piano dei costi organizzativi. Un programma recente, il Copenaghen approach (Grønbæk et al., 2009) ), che ha coinvolto 100 bambini dai 10 ai 12 anni per una durata di 18 mesi (6 mesi di trattamento intensivo + 1 anno di follow-up) con buoni risultati per chi ha completato il programma (riduzione di 0,5 punti z di BMI e della massa grassa da 32,2% a 30,1%), prevedeva per il trattamento intensivo sedute con un preparatore atletico, educazione nutrizionale con una dietista comprendenti sessioni di cucina con uno chef e shopping guidato al supermarket, terapia familiare e terapia di gruppo per il bambino. Per contro un programma sviluppato in Italia, a Ferrara, il Therapeutic Education Program (TEP) (Tanas et al., 2007) applicato su 85 bambini e adolescenti, dai 3 ai 18 anni, con un follow-up a 3 anni, mostra risultati simili (riduzione di 0,4 punti z di BMI) fondandosi su un trattamento somministrato unicamente dal pediatra che, pur prevedendo differenziazioni in base alla diverse condizioni dei soggetti, nella versione base comprende tre incontri rivolti alla famiglia, singolarmente o in gruppo, nei tre mesi di trattamento.

Il razionale dell’intervento family-based si fonda sull’assunzione che la famiglia rappresenti l’ambiente di vita del bambino e il principale veicolo di apprendimento sociale (Golan, Weizman, Apter, Fainaru, 1998; Epstein et al., 2007; Golan, 2006), attraverso il modellamento, i feed-back comunicativi, le abitudini alimentari e l’attività fisica. Secondo il modello del Social Learning, i pattern comportamentali si strutturano a partire da rinforzi ambientali (Bandura, 1977). Il rapporto con il cibo si struttura nel bambino a partire dalle influenze dell’ambiente esterno (disponibilità di cibo e misura delle porzioni) così come dall’imitazione dei modelli genitoriali.

Epstein e colleghi (1990) suggeriscono che il ruolo dei familiari dovrebbe essere allargato, oltre alla partnership nel programma di riduzione ponderale e alla funzione di supporto, per fronteggiare i sentimenti di frustrazione del figlio sia rispetto alle difficoltà del programma che alla diversità percepita nei confronti dei pari. I genitori dovrebbero anche essere preparati ad affrontare la resistenza del bambino nell’affrontare il programma (Israel et al, 1985).

Moria Golan (1998, 2001, 2006) propone un intervento diretto unicamente ai genitori, senza la presenza del bambino. Questa autrice ha confrontato, in uno studio randomizzato (Golan, 1998; 2006) che ha coinvolto 60 bambini obesi dai 6 agli 11 anni con un follow-up a sette anni, due differenti condizioni di trattamento: un intervento psicoeducativo di gruppo rivolto unicamente ai bambini e uno rivolto ai soli genitori, mirato alla realizzazione di uno stile di vita salutare e non alla riduzione del peso. Il drop-out è stato 10 volte inferiore nel gruppo dei genitori e, al termine del trattamento, questo gruppo presentava una perdita di peso del 15%, contro l’8% del gruppo dei bambini. I risultati sono migliorati ulteriormente al follow-up a sette anni, mantenendo un significativo vantaggio per il gruppo dei soli genitori (29,2% vs. 20,3%). In un successivo studio (Golan, 2006) sono state confrontate due ulteriori condizioni: presenza dei genitori insieme ai figli e genitori da soli. In questo caso si è osservata una riduzione del peso unicamente nel gruppo dei soli genitori, sia al termine dell’intervento (6 mesi), che al follow-up di un anno.

Questo interessante contributo ci porta a riflettere sul fatto che la presenza del bambino in terapia può rappresentare un ostacolo al trattamento piuttosto che una risorsa. Lo svantaggio può essere attribuibile al fatto che il bambino percepisce in modo conflittuale la richiesta di cambiamento. Lerner e Lerner (1983) hanno notato che a fronte di richieste che vengono percepite come destabilizzanti rispetto alle proprie abitudini, il bambino si ribella e tende a rinforzare i comportamenti che devono essere modificati.

Più in generale, possiamo difficilmente aspettarci dal bambino la consapevolezza della complessità del problema per cui giunge alla osservazione del medico e dei meccanismi che hanno favorito e determinato il suo problema di peso. Spesso neppure i genitori, al di là della preoccupazione, ne sono consapevoli. Il bambino, nel momento in cui viene sottolineato il suo personale problema, anche se preoccupato, potrà porsi in due modi: più frequentemente negando il problema o minimizzandolo per tentare di evitare un vero ingaggio, talvolta mostrandosi determinato ad affrontarlo. Sovente ciò avviene perché non vuole deludere i familiari, ma il prezzo è quello di caricarsi di un compito che non sa bene come svolgere e di uno stress ulteriore.

Il punto centrale è cosa è lecito chiedere al bambino e quale collaborazione ci possiamo attendere. Va valutato attentamente se c’è un grado di autonomia sufficiente da consentirgli di fare una dieta, di scegliere cosa mangiare e come organizzare i propri impegni. Si riscontra ovviamente un’ampia variabilità individuale, possiamo tuttavia pensare che al di sotto dei dodici anni il fatto di caricare il bambino di responsabilità, aspettative, timori di deludere, presenta maggiori svantaggi di quante opportunità possa promettere.

L’altro spunto di riflessione riguarda il coinvolgimento dei familiari. L’atteggiamento ingenuo è quello di pensare che la questione dovrà essere risolta tra il figlio e il dottore, senza dovere mettere in gioco lo stile complessivo della famiglia, anche quando i genitori stessi hanno problemi di peso. Il lavoro di motivazione dei familiari rappresenta un nodo cruciale che va posto tra le priorità dell’intervento. Diversi autori hanno descritto come una compliance insufficiente rappresenti una delle maggiori cause di fallimento del trattamento dell’obesità (Grønbæk et al., 2009; Ebberling et al., 2002; Inelmen et al., 2005). Gli obiettivi del lavoro con i genitori sono molteplici e non si limitano agli aspetti nutrizionali. Sintetizziamo di seguito una serie di goal dell’intervento:

         Realizzare una condizione di buona motivazione al trattamento.

         Incoraggiare i genitori a ridurre l’esposizione del bambino a cibi allettanti e ipercalorici, effettuando una spesa più consapevole.

         Stabilire orari definiti per i pasti, ritualizzarli e scoraggiare l’abitudine dei fuori pasto.

         Mangiare assieme

         Attenzione alla porzionatura, mettere in tavola quello che si pensa di mangiare e possibilmente non tutto assieme.

         Garantire un’atmosfera rilassata al momento dei pasti.

         Insegnare al bambino ad essere critico nei confronti dei messaggi pubblicitari.

         Ridurre l’enfasi sulla necessità di dimagrire e sulla positività della magrezza.

         Adottare uno stile genitoriale autorevole.

         Prestare attenzione alla comunicazione, in particolare riguardo agli stati emotivi.

         Tutta la famiglia deve adottare uno stile sano di attività fisica.

Con Roberto Ostuzzi, nel nostro libro Un boccone dopo l’altro (2007) abbiamo proposto una metodologia di trattamento familiare che può essere somministrata alla famiglia singola o a gruppi di famiglie. L’intervento, rispetto al quale si rimanda al testo di riferimento, si articola in sei passi, che illustriamo di seguito.

Primo passo: a che punto è la nostra motivazione? La famiglia viene aiutata ad essere consapevole della determinazione al cambiamento e delle possibili resistenze. Uno strumento di lavoro è rappresentato dal test “Siamo davvero pronti ad iniziare” (Ostuzzi, Luxardi, 2007), che comprende cinque gruppi di quesiti sulla motivazione: obiettivi e atteggiamenti verso il trattamento; cambiare le routine quotidiane; cibo ed emozioni; la comunicazione in famiglia; aumentare l’attività fisica.

Secondo passo: individuiamo cosa cambiare. Viene focalizzata l’attenzione sulle routine quotidiane della famiglia. Molti di questi hanno un effetto diretto o indiretto sul peso. Alcune routine sono facili da individuare, altre sono più nascoste e più difficili da scoprire. L’obiettivo è di individuare quelle non funzionali e modificarle. Viene proposto uno strumento interattivo di lavoro: la scheda di rilevazione delle routine

Terzo passo: automonitoraggio. Viene attivata una procedura di auto-osservazione. Vanno monitorate le variabili antropometriche. Viene insegnato a tenere un Diario Alimentare. Il diario viene compilato dal genitore se il paziente è un bambino; in questo caso nel diario potranno essere inserite delle colonne per segnalare eventuali difficoltà degli stessi genitori. L’adolescente dovrà invece essere coinvolto e alle volte gestirà il programma in prima persona.

Quarto passo: regolarizzare l’alimentazione. Viene enfatizzata l’esigenza di mangiare solo durante i pasti, distinguendo in modo chiaro i tempi dedicati al cibo da quelli dedicati ad altre attività. Viene incoraggiata la ritualizzazione del momento del pasto definendo orari precisi, anche per quanto riguarda la merenda, e possibilmente mangiando assieme. Vengono evidenziati comportamenti target quali l’abitudine di mangiucchiare, la consuetudine di fare il bis, la riduzione della velocità con cui si mangia a tavola. I genitori devono decidere cosa si mangia, tenendo in considerazione le preferenze dei figli se sono in grado di esprimerle. Va affrontato il problema dell’alimentazione gestita al di fuori dalla famiglia, per esempio dai nonni.

Quinto passo: muoversi di più e meglio. Viene posta l’indicazione per un’attività fisica regolare e quotidiana. Il movimento deve rientrare tra le routine giornaliere. Attività fisica non significa fare sport, ma semplicemente adottare uno stile di vita attivo.

Sesto passo: rivedere l’intero processo. Permette di monitorare l’andamento di un progetto complesso. permette di fare un bilancio del percorso effettuato nelle varie aree, individuando i punti di forza e i nodi da sciogliere, riportando le riflessioni nel colloquio con il terapeuta. Il soffermarsi sui risultati ottenuti migliora il senso di autoefficacia. A questo scopo viene utilizzata una Scheda di Revisione.

Prevenzione

La famiglia non può tuttavia essere l’unico oggetto di attenzione e intervento. Le dimensioni assunte dal problema dell’obesità impongono un’attenzione che non può limitarsi al solo tentativo di cura, ma deve affrontare alla radice la questione attraverso azioni che prevengano l’insorgenza del problema. Questa affermazione riscuote un consenso universale. Più complesso è invece stabilire come può essere costruita una prevenzione realmente efficace. Come abbiamo visto, uno stile di vita favorente lo sviluppo dell’obesità ha a che fare con i comportamenti e i modi di sentire individuali, ma anche e soprattutto con l’ambiente in cui viviamo, dalle abitudini familiari alle caratteristiche della struttura e dell’organizzazione sociale (disponibilità di cibo, scelte urbanistiche, politiche delle industrie alimentari, esposizione ai media, ecc.).

Le collocazioni più logiche degli interventi preventivi sono la famiglia, la scuola, il territorio e l’industria alimentare. Ci sono alcune esperienze a livello internazionale di interventi di questo genere, con risultati apprezzabili. Tuttavia gli esiti di queste azioni sono ancora poca cosa rispetto all’entità del problema e soprattutto i miglioramenti riscontrati declinano una volta terminata l’esperienza, segno che la pressione sociale tende a ripristinare i vecchi comportamenti. Dobbiamo concludere che, affinché gli stili di vita acquisiti vengano rinforzati e incoraggiati, gli interventi sulla famiglia e sulla scuola devono essere supportati da cambiamenti a livello culturale e sociale. Un obiettivo di questa portata richiede uno sforzo coordinato da parte delle famiglie, della scuola, delle strutture sanitarie, della grande distribuzione alimentare e delle associazioni dei ristoratori, dei pubblicitari e dei mass-media, delle organizzazioni sportive e del tempo libero, degli urbanisti, degli amministratori, dei politici e dei legislatori. Un progetto arduo e ambizioso.

La prevenzione dell’obesità richieda un ampio spettro di azioni:

         Corrette politiche sociali di informazione ed educazione della famiglia

         Investimenti degli enti locali in strutture per l’attività fisica

         Interventi nella scuola di educazione e prevenzione della salute sui temi dell’autostima, dell’immagine corporea, dell’attività fisica

         Detassazione delle attività favorevoli al mantenimento di un corretto stile di vita

         Interventi per genitori e famiglia mirati all’educazione e prevenzione sul tema obesità

         Interventi mirati a modificare le preferenze alimentari, il tempo dedicato alla TV e ai videogiochi

         Messa in sicurezza degli spazi urbani aperti, realizzazione di parchi, aree giochi, marciapiedi, zone pedonali, creazione di piste ciclabili

         Tassazione dei cibi non salutari e agevolazioni per la promozione degli alimenti sani

         Creazione di standard dietetici per la refezione scolastica

         Sostituzione delle bibite zuccherate e degli snack dalle macchinette nelle scuole con cibi a basso contenuto di grassi, frutta e verdura

         Chiarificazione delle etichette nutrizionali e aumento del controllo sui messaggi ingannevoli

         Controllo sui contributi pubblici alle industrie alimentari

         Riduzione e analisi delle pubblicità alimentari rivolte ai bambini

         Attenzione sulle forme di pubblicità mascherata rivolta ai bambini

Questi suggerimenti possono essere accolti se ci si muove contemporaneamente a più livelli, da quello individuale e locale (famiglia, scuola, Enti Locali) a quello della politica nazionale e internazionale.

Fare prevenzione significa modificare il nostro sistema di vita, l’ambiente che genera obesità. Tutto ciò non può essere semplificato in una richiesta di buona volontà e di autocontrollo posta al bambino. Come osserviamo nella figura 1, esistono vari livelli che determinano il risultato complessivo. Ogni livello successivo può rinforzare o vanificare il cambiamento realizzato al livello precedente.


Una prevenzione che si fondi unicamente sul tentativo di modificare i comportamenti del bambino, facendo appello al suo senso di responsabilità e alla sua buona volontà, è una prevenzione impossibile, destinata a fallire e a provocare a cascata conseguenze negative: il bambino può trarre un giudizio negativo su di sé dalle difficoltà a controllare il proprio peso. Non riuscirà a dimagrire ma costruirà un’autostima negativa. Indicazioni dietetiche rigide possono turbare l’equilibrio spontaneo del bambino nei confronti dell’alimentazione: la percezione delle sensazioni corporee (fame, sazietà), il piacere della convivialità, il simbolismo legato al cibo possono essere disturbati, privando il bambino di elementi essenziali della qualità del vivere. Infine, in una società che esalta il valore della magrezza, l’incoraggiamento a dimagrire può rappresentare per un preadolescente fragile un fattore di sviluppo di un disturbo alimentare. La cosa è sufficientemente grave da meritare una riflessione.

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