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Testimonianza di un fratello

TESTIMONIANZA

Quando mia sorella, quasi diciotto anni fa, ha comunicato in famiglia un disagio che poi si è rivelato essere un disturbo alimentare, il mio primo pensiero è stato: ne verremo fuori. 
Ricordo di aver passato tutta la sera su internet per informarmi, perché non conoscevo quasi nulla del problema. Assieme alla mia famiglia, mi sentivo investito di un compito: trovare una soluzione e applicarla. Semplice e lineare.
Inutile dire che mi sbagliavo di grosso.
 
I primi tempi sono stati i più duri. 
Dopo la scoperta del problema, i comportamenti patologici di mia sorella (abbuffate, vomito autoindotto) si sono accentuati. Lei stessa ha ammesso più tardi che il fatto di non doversi nascondere le aveva dato una nuova libertà nel perseguire il suo obiettivo di controllo patologico sul suo corpo. Era difficile, all'inizio, capire come comportarsi. Consigli, commenti preoccupati, sguardi di disapprovazione avevano ovviamente un effetto opposto a quello sperato. Ma non si poteva neanche rimanere insensibili di fronte agli impulsi chiaramente autolesivi di mia sorella. È stato in quel periodo che mi sono accorto di avere a che fare con un problema profondo e ramificato, di cui l'aspetto alimentare era solo il sintomo esteriore. Un problema che nessuno di noi poteva risolvere dall'esterno applicando una qualche ricetta precostituita.
 
Ricordo il primo ricovero di mia sorella, in ospedale: il suo sorriso triste, la richiesta angosciata in fondo ai suoi occhi. Ricordo di aver scritto in una poesia l'unica risposta che allora ero in grado di dare: “Passerà tutto questo? Sì, passerà”. Ma non ne ero affatto convinto.  
Mi aggrappavo a un ottimismo istintivo per scacciare il pensiero terrificante che in realtà non ci fosse nulla da fare. Come fratello mi sentivo in colpa di non essermi accorto in tempo del problema, e di esserne stato corresponsabile (senza volerlo, è chiaro) come parte di un meccanismo familiare non sempre sano. Al senso di colpa, reagivo a volte con un eccesso di coinvolgimento (“da oggi in poi mi comporterò in modo perfetto”), a volte con il rifiuto. 
Mi dicevo che avevo anch'io la mia vita e i miei problemi, e quasi mi “rifugiavo” in essi, sentendomi perfino un po' invidioso di tutta l'attenzione che riceveva mia sorella.
Erano reazioni normali. Tappe che dovevo compiere per arrivare al punto di essere davvero d'aiuto. 
Le cose hanno cominciato a migliorare con i primi ricoveri in clinica (nonostante le difficoltà connesse). 
L'esperienza del distacco e il colloquio con i medici e gli psicoterapeuti mi hanno aiutato a capire che il problema non riguardava me, e che per questo non spettava a me risolverlo. Mi vergogno a dirlo perché ora mi sembra una scoperta banale, ma al momento non lo fu affatto. Non fu neppure un'illuminazione momentanea, ma una presa di coscienza graduale. Era mia sorella a dover fare i conti con il “mostro”: la decisione di seguire la terapia e di affrontare tutte le difficoltà che essa comportava (comprese le inevitabili ricadute) era solo sua, e non poteva essere altrimenti. 
Come fratello, potevo solo contribuire a creare attorno a lei un ambiente favorevole e non farle mancare la mia fiducia nel fatto che potesse farcela.
Mia sorella ce l'ha fatta. Non ha ucciso il mostro, ma è riuscito a chiuderlo in gabbia, impedendogli di influenzare la sua vita. Da anni, ormai, il problema non è più un problema. Le tecniche che nel frattempo ha imparato le sono utili in molti ambiti della vita: adesso è lei che aiuta me quando mi trovo in difficoltà. 
Se non ci fosse stata la malattia, forse il nostro rapporto oggi non sarebbe così profondo e sincero.
 
Ho raccontato le mie emozioni perché forse possono essere di aiuto a qualcuno, ma non sono l'aspetto importante della storia. 
L'aspetto importante è il percorso di mia sorella: un percorso lungo e accidentato, che in un certo senso continua ancora, ma con molta meno fatica.
 
Quando un nostro caro soffre, è normale soffrire con lui e chiedersi come aiutarlo. 
Vorremmo esprimere il nostro amore e la nostra vicinanza, ma in un caso come quello dei disturbi alimentari sembra che non esista un modo giusto di farlo – sembra che ogni gesto possa rivelarsi sbagliato. 
Non è così. 
Nel mio caso, la forma di amore migliore (quella di cui mia sorella aveva davvero bisogno) era la fiducia. Non è detto che valga per tutti, ma è una via possibile. E ce ne sono molte altre. Non bisogna mai stancarsi di cercarle.